«Nella mia mente i film si dividono tra quelli fatti prima de La dolce vita e quelli dopo. Ha rotto l’unità delle regole della narrazione grazie alla sua audacia». Disse così Martin Scorsese, ma sono pressappoco le stesse parole che usò Woody Allen parlando dell’impatto avuto da La dolce vita nella storia del cinema: «Ha sconvolto la nostra concezione della realtà. Il mondo non sarebbe com’è se non fosse esistito Federico Fellini». Oliver Stone scoprì il capolavoro felliniano all’età di quattordici anni, manco a dirlo fu una folgorazione: «Un film epico. […] Mi ha colpito che fosse girato nell’arco di sette giorni, durante i quali un giornalista vaga senza meta nell’Inferno di Dante». Sin dal primo momento in cui arrivò al cinema, fu chiaro a tutti come La dolce vita fosse molto più che un semplice film, piuttosto un’opera d’arte infungibile e preziosa.

Valenza artistica eccellente poi certificata da quella Palma d’Oro di cui fu insignita a Cannes13 il 20 maggio 1960. In quegli anni sessanta italiani, dove il Secondo Dopoguerra stava finalmente abbracciando il senso di benessere, La dolce vita piombò a gamba tesa tra la gente raccontandone con piglio graffiante e stridente – un po’ alla maniera del contemporaneo L’avventura di Michelangelo Antonioni – la decadenza della morale e la crisi di valori dell’uomo moderno. E lo fece mutando, di riflesso, le forme della poetica del suo autore, dove il realismo magico felliniano abbandonò del tutto le cupe scorie neorealistiche delle opere precedenti (La strada, Il bidone, Le notti di Cabiria) per abbracciare le pulsioni erotiche, lo sfarzo e le paillettes della Roma da bere. C’era come una frenesia nell’aria nell’Italia de La dolce vita.

Qualcosa che seppe ben fotografare Divorzio all’Italiana di Pietro Germi del 1961 testimoniando nella verosimigliante finzione (meta-)cinematografica come: «Non s’era mai visto niente di simile. Anche le sedie del bar Centrale, stipate dentro la sala, risultarono insufficienti a far fronte all’afflusso del pubblico. Erano arrivati anche dalle campagne, percorrendo decine di chilometri a dorso di cavallo e creando problemi di promiscuità per gli uomini di Agramonte». Lo stesso Germi regalò al momento topico dell’arrivo in paese de La dolce vita una certa valenza nell’economia del racconto. È infatti la sera in cui la Rosalia di Daniela Rocca decide finalmente di lasciare quel Ferdinando “Fefè” Cefalù reso grande – e dal sempre più evidente paradosso meta-linguistico – proprio da Marcello Mastroianni: il Marcello Rubini dell’opera felliniana.

Lo stesso Fellini, dal canto suo, ha sempre ritenuto La dolce vita come un film strano: «Il più difficile che ho immaginato finora. È un film che andrebbe proiettato tutto insieme, in una sola enorme inquadratura. Non pretende di denunciare, né di tirare le somme, né di perorare l’una o l’altra causa. Mette il termometro a un mondo malato, che evidentemente ha la febbre, ma se il mercurio segna quaranta gradi all’inizio, ne segna quaranta anche alla fine».Un mondo di decadente fantasia, quello de La dolce vita, da cui Fellini aveva trovato ispirazione tra le maglie della macabra realtà. Nello specifico dall’inchiesta del giornalista Manlio Cancogni pubblicata su L’Espresso nel 1959, dal titolo Capitale corrotta = Nazione infetta. Fu abile Fellini ad interpretare gli indizi del caso trasformandoli in una narrazione che li trascese facendone denuncia ed ammonimento.
Ed è qui, sullo sfondo di una Roma più Infernale che Capitale, che Fellini trascina il suo asettico e mai realmente evoluto in termini di trasformazione caratteriale Rubini/Mastroianni tra un quadro narrativo e l’altro dove: «Tutto è immutato, La dolce vita continua. I personaggi dell’affresco continuano a muoversi, a spogliarsi, ad azzannarsi, a ballare, a bere, come se aspettassero qualcosa. Che cosa aspettano? E chi lo sa? Un miracolo, forse». Eppure, fosse stato per il suo primo produttore, Dino De Laurentiis, La dolce vita avrebbe avuto contorni ben diversi. Con Fellini ci furono parecchi contrasti, come per la scelta dell’attore protagonista. De Laurentiis aveva immaginato uno fra Paul Newman e Gérard Philipe, così da garantire a La dolce vita una forte presenza nel mercato internazionale. Fellini si impuntò sull’emergente Mastroianni fresco del successo de Le notti bianche e I soliti ignoti.
La ebbe vinta, ma con De Laurentiis si arrivò alla rottura tanto da decidere di lasciare il progetto. Dopo varie trattative entrarono in scena Angelo Rizzoli e Giuseppe Amato che con Fellini ebbero un rapporto più sereno e cordiale rispetto a De Laurentiis, questo nonostante il budget de La dolce vita (che alla fine si aggirerà intorno ai 540 milioni di lire) sforò già a metà produzione. Uno dei costi più consistenti sostenuti dalla produzione fu la ricostruzione di Via Veneto in un teatro di posa, poi riutilizzata nel più che esplicito film di recupero dell’anno successivo: Totò, Peppino e… la dolce vita di Sergio Corbucci. Anche la sceneggiatura de La dolce vita rappresentò un elemento di contrasto con De Laurentiis. A suo dire risultava troppo caotica e poco commerciale.
Fellini, che sulla sceneggiatura lavorò assieme a Tullio Pinelli ed Ennio Flaiano, come consuetudine fu poco fedele alle pagine su carta, finendo con il manipolarle modellandole attorno a personaggi e situazioni: «Inventiamo episodi, non preoccupiamoci per ora della logica del racconto. Dobbiamo fare una statua, romperla e ricomporne i pezzi». A tal proposito, il critico Tullio Kezich – che di Fellini fu un grande amico e de La dolce vita tenne un diario di lavorazione (Noi che abbiamo fatto La dolce vita) – raccontò come Fellini fosse contrario alla pubblicazione della sceneggiatura perché, a suo dire, la fisionomia del film viveva solo sullo schermo. Alla fine si lasciò convincere. Il motivo? Capì quanto sarebbe stato interessante per i lettori scoprire la base da cui era partito così da comprendere lo scarto su carta nel processo che portò poi La dolce vita a vivere nelle immagini.
All’uscita dalla proiezione Fellini fu fermato da una donna che lo accusò di voler consegnare l’Italia ai bolscevichi. Nelle successive ventiquattro ore, manco a dirlo, Fellini ricevette oltre quattrocento telegrammi che lo accusavano di essere comunista, ateo e traditore della patria. Su L’Osservatore Romano apparvero due articoli parecchio negativi (La sconcia vita, Basta!) che si dice fossero firmati da Luigi Scalfaro sotto pseudonimo. Tra gli indignati non poteva mancare l’ex produttore De Laurentiis secondo cui La dolce vita era «Incoerente, falso e pessimista». L’opera divenne oggetto di strumentalizzazione politica. La Democrazia Cristiana demonizzò La dolce vita. Dello stesso avviso il Vaticano che lo condannò in via ufficiale chiedendo ai fedeli di pregare per l’anima di Fellini. La sinistra italiana invece lo difesa in maniera unitaria: i Comunisti sottolinearono il valore di denuncia dell’opera, i Socialisti lo resero tema dei loro manifesti elettorali. Si arrivò perfino alle interrogazioni parlamentari.
L’unico vero compito de La dolce vita era tener fede alla sua funzione di veicolo di magia cinematografica. Quel suo essere una narrazione indirettamente episodica e disorganica ma coerente nel suo montaggio a-lineare, che nel raccontare di apparizioni e miracoli, delitti, cinismo e solitudini del cuore, vede sprigionare nel pubblico eccitazione, angoscia, divertimento, tristezza, tutta la gamma di emozioni proprie della meraviglia, quella spontanea resa immagine dal potere del grande cinema e per cui – oltre mezzo secolo dopo – a La dolce vita bastò una sola e semplice sequenza per guadagnarsi l’immortalità artistica: la Fontana di Trevi in piena notte, il silenzio di una Roma prossima al risveglio, Anita Ekberg, e tre semplici parole: «Marcello, came here!».
(Francesco Parrino, The Hot Corn, 8 maggio 2022)