La figura di Vittorio De Seta si staglia solitaria e appartata nella storia del cinema italiano.
La sua produzione, composta quasi unicamente di documentari, ha la bellezza, la sensibilità e la grazia del cinema nordeuropeo e dei dipinti fiamminghi.
I suoi pastori, le sue tempeste, i suoi paesaggi pieni di vento e di nebbia potrebbero trovarsi in Scozia, in Norvegia, in Islanda, se non fosse per i volti scuri dai tratti marcatamente mediterranei.
Vittorio De Seta è a buon diritto il capofila del Cinema del Reale, una scuola che affonda appunto le sue radici profonde nel Neorealismo e si sviluppa autonomamente attraverso un tipo di narrazione che prende le mosse dalla realtà ma possiede una connotazione del tutto autoriale. Nel Cinema del Reale l’impronta del regista è la differenza sostanziale tra un semplice resoconto e un’opera con un’anima propria.
Di discendenza aristocratica, De Seta nasce a Palermo nel 1923. La famiglia è originaria di Catanzaro e il legame con la Calabria sarà sempre molto evidente nel regista, che infatti lì si trasferirà a un certo punto della sua vita, girerà negli anni’90 il lungometraggio In Calabria e vi resterà fino alla morte, avvenuta nel 2011.
La formazione scolastica e universitaria di Vittorio De Seta sono controverse e conflittuali; la didattica tradizionale gli è insopportabile ed egli inizia molto presto ad esplorare autonomamente il mondo dell’arte, stringendo amicizia con il pittore Renato Guttuso. La passione per le arti figurative lo condurrà alla fotografia e diverrà molto evidente nella sua estetica cinematografica.
Il primo, decisivo contatto con il popolo avviene per De Seta durante la deportazione in un campo di prigionia tedesco in Austria, a seguito di una delle innumerevoli rappresaglie dell’esercito di Hitler dopo l’8 settembre 1943. La detenzione dura fino al 1945, anno in cui il campo viene liberato dai sovietici.
Gli anni di prigionia incidono profondamente l’animo di Vittorio, che in quell’occasione si trova per la prima volta nella sua vita a contatto con compagni di sventura di provenienza molto diversa dalla sua: “messo assieme ai soldati semplici, e lì in condizioni difficili ho conosciuto una dimensione nuova che era il mondo popolare. Da quel momento ho sempre avuto l’idea di un debito.”
In un periodo storico in cui i contatti tra classi egemoni e subalterne erano di fatto nulli, trovarsi per un rappresentante dell’aristocrazia dotato di cultura e sensibilità in mezzo a chi conosceva la fame poteva essere devastante; la sensazione di debito perenne nei confronti del popolo è comune anche a intellettuali della stessa generazione di De Seta o poco più giovani: Pasolini suo coetaneo (di provenienza borghese), o De André.
L’opera intera di Vittorio De Seta, tranne alcune incursioni nell’autobiografico, è da intendersi in un certo senso come un tributo al popolo.
Gli anni in cui De Seta realizza i suoi cortometraggi rivestono un significato particolare per il nostro Paese: dopo i disastri causati dal fascismo, l’Italia inizia a sperimentare i primi segni di quello che di lì a poco diverrà il “boom economico”. L’accelerazione dell’industrializzazione e dei processi di urbanizzazione ma soprattutto la novità assoluta introdotta dall’immissione sul mercato di beni di consumo che mira a trasformare un’economia di sussistenza in una basata sull’acquisto di merci rapidamente sostituibili, mutano una società basata su rapporti comunitari di stampo prevalentemente rurale.
Per inciso, la trasformazione in atto in quegli anni, si constaterà nei decenni successivi, non opererà una mutazione profonda nell’atteggiamento generale degli italiani, influenzati storicamente da altri potenti fattori di condizionamento, ad esempio la presenza capillare della Chiesa cattolica e una propensione alla salvaguardia esclusiva del proprio tornaconto individuale.
Questo tipo di valutazione è estranea alla poetica di De Seta: a lui non interessa un cinema politico (questo gli alienerà molte simpatie tra i critici) ma la documentazione degli stili di vita tradizionali del Sud Italia, sua terra d’origine cui dedicherà tutta la sua produzione documentaria, e della Sardegna, in un periodo storico in cui le trasformazioni appena ricordate rischiano di spazzare via secoli di saperi e usanze.
Le storie di Vittorio De Seta, che narrano di contadini, pescatori, pastori e delle loro donne e dei loro bambini, sono costruite evitando del tutto il basso profilo produttivo che all’epoca ci si sarebbe aspettati: i suoi documentari possiedono i colori sfavillanti del Cinemascope (una delle maggiori innovazioni tecniche di quegli anni) e un respiro giustamente definito da Fofi “operistico”, sebbene parlino di un’umanità piccola e dimenticata. I documentari di De Seta, cioè, sono caratterizzati da un taglio che rende epiche e quasi ascrivibili a un universo primigenio e mitologico azioni quotidiane come la pesca al pescespada o il pascolo delle greggi.
Il mare, protagonista de Lu tempu de lu pisci spata o Pescherecci è talmente blu e lucente da far male agli occhi, ma proprio quella lucentezza esagerata lo restituisce allo spettatore con la stessa maestosità e profondità con cui doveva esser apparso agli antenati greci e fenici di quegli stessi pescatori che faticano da secoli inseguendo tonni e pescespada, creature imprendibili alla morte delle quali, per rispetto, tutti si tolgono il cappello.
La magnificenza della colorazione evidenzia i volti, gli oggetti spartani e l’asciuttezza dei gesti quotidiani dei protagonisti delle storie di de Seta, attribuendo loro una nobiltà e una dignità fuori dal tempo.
La seconda caratteristica che rende l’opera filmica di De Seta del tutto diversa dalla produzione documentaria tradizionale e concorre a porre le basi del Cinema del Reale è la totale assenza di voce fuori campo. Nel documentario divulgativo tradizionale (quello cui i fruitori degli spettacoli cinematografici dell’epoca in cui escono i corti di De Seta sono abituati prima della visione del film in programmazione, in anni in cui la TV ancora non si è diffusa nelle case) l’intento didascalico è completato dalla voce del narratore; nei corti di De Seta, il silenzio regna su tutto.
Il silenzio, nel cinema di De Seta, non è assenza di rumore ma l’insieme dei suoni della quotidianità, con rarissime incursioni della voce umana, rumore di fondo anch’essa con richiami agli animali o ai pescatori, quasi fosse un verso antichissimo. I suoni del vento, del vulcano, dei campanacci delle greggi e dello sfrigolio del fuoco concorrono a proiettare le esistenze narrate in un tempo non quantificabile, prima della nascita del mondo.
Ci si chiede, dopo aver ascoltato quei suoni, se la parola umana sia ancora necessaria.
In Isole di fuoco, ambientato a Stromboli, il regista narra di una notte di eruzione e di tempesta, preceduta da avvisaglie inconfondibili: il mare si agita, gli animali sono nervosi, le sterpaglie sono prima accarezzate poi sferzate dal vento che aumenta progressivamente di forza.
Il vulcano inizia a farsi sentire e gli abitanti si rifugiano in casa. Lo conoscono, lo temono e lo rispettano: il vulcano è una presenza che faceva già parte delle loro vite prima che le loro vite iniziassero.
La telecamera e il montaggio restituiscono la dolcezza della serata nonostante il timore per l’eruzione: una bambina dorme, un bambino molto piccolo cerca rifugio tra le braccia del papà, che lo porta con sé davanti al fuoco, al sicuro.
I volti di queste persone silenziose sono ritratti in tutta la loro bellezza e nobiltà, rendendo evidente quell’oscuro e incessante lavoro di restituzione della dignità alla gente del popolo tributato da De Seta lungo tutta la sua carriera.
Un altro cortometraggio in cui è ancora più evidente questo tocco poetico è Un giorno in Barbagia (1958).
Mentre gli uomini sono fuori a governare gli animali, si racconta la vita delle donne, che restano a casa a badare ai bambini e alle faccende domestiche. Non c’è traccia di abbrutimento o di rassegnazione in queste immagini: le donne hanno volti e capelli magnifici e svolgono tutta una serie di lavori in comune tra cui, altamente simbolica, la preparazione e la cottura del pane. Rese con la delicatezza e la severità dei pittori del Secolo d’Oro olandese, le immagini di vita domestica sono meravigliose, ma una spicca su tutte: una donna prende in braccio un fagotto di coperte e lo porta con sé davanti al fuoco, dove un’altra donna la aspetta. Ella si siede, svolge il fagotto come se contenesse un tesoro inestimabile, e in effetti da sotto tutte quelle coperte spunta una bambina bruna, bellissima e sorridente. La mamma e l’altra donna (una zia, chissà) sorridono anch’esse, felici.
Difficile imbattersi in una scena più perfetta e commovente, e senza la necessità di una sola parola.
La dignità e la bellezza diventano le caratteristiche nobili di un popolo dimenticato: la Barbagia è una sorta di terra di nessuno, incomprensibile ai più e sicuramente irredimibile per lo Stato centrale, presente solo con tasse e repressione come diventa evidente in Banditi a Orgosolo (1961, Premio “Opera Prima” alla mostra Internazionale del Cinema di Venezia dello stesso anno), il film di lungometraggio più celebre di De Seta.
Questo breve excursus sulla produzione 1954-1959 di Vittorio De Seta non può che concludersi con due corti particolarmente interessanti per i loro contenuti di taglio etnologico: Pasqua in Sicilia (1955) e I dimenticati (1959).
Il primo documenta la messa in scena della passione, morte e resurrezione di Gesù Cristo in occasione della Pasqua in tre piccoli borghi della Sicilia: San Fratello, Delia e Aidone. La sentita e partecipata rappresentazione della Passione testimonia un sentimento religioso che, come sempre accade nella manifestazione dei culti popolari, non ha nulla a che fare con i riti ecclesiastici istituzionali ma molto invece con il desiderio di aggregazione e la commistione con antichissimi riti pre-cristiani legati al ciclo delle stagioni, che si sono sedimentati nell’immaginario attraverso le generazioni.
La telecamera indugia sui volti di uomini, donne e bambini, sui venditori di dolci e palloncini restituendoci una sensazione di vertigine e malinconia mentre guardiamo un mondo scomparso come si guarda una stella esplosa milioni di anni prima ma ancora visibile ai nostri occhi.
La testimonianza più forte dell’esistenza inestirpabile del culto della Natura è sicuramente ravvisabile nel clamoroso I dimenticati (1959). Nell’entroterra calabrese, a Alessandria del Carretto, nome altisonante e melodioso dietro cui si nasconde un irraggiungibile borgo di montagna in cui le provviste devono essere consegnate dopo un trasporto a dorso di mulo, si svolge una festa che davvero potrebbe essere accomunata ai riti nordeuropei che celebrano l’arrivo della Primavera.
Alla fine dell’inverno, i mastri d’ascia scelgono un abete, lo abbattono e, con la partecipazione di tutti gli uomini del paese, lo sfrondano e lo trainano dal fianco della montagna verso la piazza del villaggio. Lì, con grandi sforzi, viene issato e trasformato in un albero della cuccagna.
Il trasporto dell’albero è seguito da un corteo spontaneo che si ingrossa sempre più, composto da bambini, ragazzi con ramoscelli, donne con ceste piene di cibo che verrà consumato in un grande pic-nic sull’erba.
Il giorno successivo, ai rami sfrondati dell’abete verranno appesi formaggi, trecce di pane e altri alimenti che andranno all’asta, il cui ricavato servirà a pagare le spese della festa.
Si intravede anche la partecipazione del parroco del paese, ma la presenza della Chiesa è del tutto marginale.
Il rituale dell’albero, il pranzo sull’erba, le trecce di pane appese ai rami ricordano davvero le usanze tedesche, scandinave o scozzesi, ed è bizzarro e affascinante al tempo stesso che tutto ciò si svolga invece a molte centinaia di chilometri da quei luoghi fatati, nel cuore della Magna Grecia, mentre le nuvole e la pioggia di primavera invadono le vite e le strade.