
L’opera di Leoncavallo resta ancora oggi il melodramma italiano più rappresentato a teatro in tutto il pianeta. Venerata negli Usa, dove è ritenuta patrimonio nazionale, e citata in capolavori di Hollywood, cartoni animati e spot. Innovativa, ibrida, popolare. E tutto nasce da un omicidio a pochi chilometri da Cosenza
«Benvenuti a Montalto Uffugo, il paese di Ruggiero Leoncavallo». Recitava così un enorme cartellone stradale visibile dal 2002 all’ingresso di quello che ora è lo smantellato e fatiscente ipermercato Emmezeta, appena fuori dallo svincolo Rose-Montalto dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria. Curioso invito alla sosta tra luoghi-non luoghi collegati alla genesi artistica e alla vicenda di uno dei più famosi e popolari melodrammi del teatro lirico italiano. Eppure il palinsesto originario di Pagliacci riconduce a un territorio estraneo e distante dalla soglia mobile ed effimera di questi santuari provvisori del consumismo planetario. A un mondo “altro”, lontano anni luce dalle finzioni glamour e dalla spettacolarizzazione a cui ci ha abituato oggi la cultura di massa.
Il piccolo Leoncavallo e la vera storia di Pagliacci
Il più famoso melodramma di Leoncavallo (autore peraltro molto prolifico) nasce intorno al 1890. Enfatizza gli echi più tragici e coinvolgenti scaturiti da un episodio registrato dalle cronache e dal folclore locale. L’opera si ispira a un delitto realmente accaduto a Montalto Uffugo, quando il compositore era bambino. In seguito, il padre di Ruggiero Leoncavallo, Vincenzo, un magistrato napoletano destinato a quel mandamento giudiziario, ebbe il compito di istruire il processo che portò alla condanna dei colpevoli.
Ecco in breve come andarono realmente le cose. Per una carambola del caso il piccolo e irrequieto Ruggiero venne affidato dalla famiglia alla sorveglianza di un domestico, il ventenne Gaetano Scavello. Siamo nel 1865, Leoncavallo (che prendeva lezioni di musica da quando aveva 5 anni) all’epoca dei fatti ne aveva appena 8.
La cronaca nera stava per entrare nella sua vita turbando anche la pigra tranquillità di Montalto Uffugo. Proprio Scavello, giovane factutum di casa Leoncavallo, si era preso una sbandata per una bella e forse non del tutto “illibata” (ma quella era la morale paesana di quei tempi) ragazza del paese, che risultava comunque promessa al calzolaio Luigi D’Alessandro.
La morte del factotum di casa
Un giorno di marzo il giovane Scavello vide entrare furtivamente la ragazza in una casa colonica. Era insieme al garzone della famiglia D’Alessandro, tale Pasquale Esposito. Pretendendo maggiori spiegazioni, Scavello fermò Esposito, ma il suo rifiuto di rivelare il motivo dell’incontro con la ragazza lo fece infuriare al punto di ferire l’avversario alle gambe con un bastone. La ragione dello scontro venne subito riferita allo stesso Luigi D’Alessandro e al fratello di questi, Giovanni.
La sera successiva i due feriti nell’onore minacciarono più volte Scavello. E al culmine di un alterco, approfittando della confusione e del parapiglia promiscuo che si era creato all’uscita di uno spettacolo di varietà messo in scena da una compagnia di sciantose e guitti ambulanti che visitava il paese, accoltellarono il giovane a morte tendendogli un agguato in un sopportico. L’istruttoria e il successivo processo per l’omicidio dello Scavello, celebrati da Vincenzo Leoncavallo, si conclusero con la condanna a venti anni di reclusione per Luigi D’Alessandro e ai lavori forzati a vita per suo fratello Giovanni.
Troppo verista per Ricordi
Difficile che il piccolo Leoncavallo possa aver assistito direttamente al fatto di sangue, mentre è certo il legame di familiarità stabilito all’epoca dei fatti con la vittima. La traduzione dei fatti originari è quindi piuttosto diversa da quella che segnerà poi lo sviluppo successivo della scrittura dell’opera lirica. Anche la trama e la scrittura del libretto per Leoncavallo non furono cosa semplice e non mancarono scoraggianti contrarietà e rifiuti. Il compositore sottopose il lavoro all’editore Ricordi, che rimase turbato dalla modernità del libretto e dal prologo eccessivamente verista in cui Leoncavallo, tramutando quella tragedia paesana di sangue e di coltello consumata dal vero, aveva tratto ispirazione e materia creando un ardito cortocircuito tra scena comica e vicenda tragica.

Leoncavallo provò infine con Sonzogno, che imponendo qualche revisione, gli consentì di portare finalmente a teatro il lavoro che aveva così a lungo e accanitamente immaginato, scritto e musicato. Il suo lavoro mette per la prima volta a contatto figure e costrutti della tradizione e della culturale locale calabrese con i linguaggi della modernità.
L’opera lirica fu perciò ambientata dal compositore napoletano proprio nella «sua» Montalto Uffugo, il piccolo paese della provincia di Cosenza dove si consumò l’episodio di cronaca che lo condusse a scrivere a 35 anni Pagliacci.
Toscanini e il primo clamoroso successo
L’opera ha nell’aria Vesti la giubba e nella definizione del Prologo, espressione di teatro nel teatro che già anticipa la drammaturgia novecentesca, i suoi passaggi librettistici e musicali più conosciuti. Leoncavallo non fu infatti solo musicista ma anche un buon letterato, fu allievo di Carducci a Bologna, visse e lavorò a Parigi – dove conobbe Zola e Hugo – viaggiò dall’Egitto agli USA, in Francia, in Svizzera e in Sudamerica.

Partita in sordina, considerata opera di un autore minore, con un libretto di argomento rozzo e «barbaramente verista», aggravato dalla remota ambientazione locale e per giunta rurale, sin dalla prima recita messa in scena il 21 maggio 1892 al teatro Dal Verme di Milano, direttore un giovane Toscanini, Pagliacci si rivelò invece inaspettatamente un clamoroso successo, proseguito e riaffermato poi nei teatri lirici di tutto il mondo.
Anche meglio di Verdi
Con Pagliacci Leoncavallo e il suo editore Sonzogno, non molto tempo dopo, riusciranno a superare persino gli incassi delle opere di Verdi. A distanza di un secolo Pagliacci resta nei fatti un unicum. Un esempio di sintesi culturale tra i più autentici e riusciti in mezzo ai capolavori del verismo musicale italiano. Sulla scena è protagonista un povero guitto deriso e fatto becco da una Circe da fiera di paese che sceglie il suo ultimo amante tra uno dei ganzi che le ronzano intorno nella confusione della folla eccitata e stordita di un afoso paesino in cui si celebra tra libagioni omeriche e danze contadine la festa di mezza estate.
La commedia degli attori girovaghi si tiene sotto un tendone lacero e improvvisato. Ma l’attrazione sta nei carrozzoni colorati da cui occhieggiano zingare compiacenti e sciantose imbellettate, il cui fascino profano gareggia con le immagini pie delle madonne barcollanti portate in processione nella controra. Siamo nella Calabria del 1870, ma due elementi danno una credibilità e uno spessore antropologico universale (e beninteso, teatrale) al melodramma: il paesaggio e l’ambiente sociale, emblema di tutti i Sud che si affacciano per le ultime recite sul bordo del vecchio mondo contadino che già declina verso il Novecento, con l’incipiente mondo contemporaneo che vedrà la globalizzazione dei costumi. C’è poi il dramma «classico» e luttuoso che grava sulla figura tragica di Canio.
Il melodramma più rappresentato in giro per il mondo
Il verismo di Pagliacci non è solo rappresentato nei costumi, nelle invocazioni gergali, nell’ampio coinvolgimento scenografico di figure popolari –tratte come le scene dal vero della prima rappresentazione teatrale, dai dipinti del pittore calabrese Rocco Ferrari –, ma anche soprattutto nel dramma dell’onore, nelle figure di Canio e Nedda, nell’apoteosi brutale del duplice omicidio finale.
Ed è forse per questo che l’opera di Leoncavallo, scritta pensando alla Calabria e al suo mondo segregato e distante, ritrova ancora oggi i contrasti tragici della sua radice più classica e insuperata nella congiuntura culturale, che nonostante il secolo trascorso ne mantiene intatto il successo anche in ambito contemporaneo. Pagliacci è infatti ancora oggi il melodramma italiano più frequentemente portato in scena e cantato, persino più volte delle opere di Verdi e Puccini. Ogni anno in giro per il mondo, nei teatri di tutti i continenti, si contano più di 400 rappresentazioni dell’opera.

Leoncavallo, Pagliacci e l’industria culturale
Anche l’industria culturale e il cinema ne hanno attinto a piene mani. Le note delle arie più famose di Pagliacci risuonano ne la trilogia de Il padrino di Coppola e una delle scene clou de Gli intoccabili di De Palma, sino alle più recenti versioni melò dell’opera di Leoncavallo firmate in Italia da Zeffirelli (1983), Liliana Cavani (1998) e Marco Bellocchio (2016). Uno dei marchi delle global company più conosciute nel mondo, la Coca Cola, già più qualche anno fa aveva pensato bene di utilizzare per la pubblicità della sua così poco mediterranea bevanda, proprio la traccia musicale di una delle arie più sentimentali e patetiche che danno lustro universale alla vicenda di questo melodramma.
Leoncavallo fu in grado di operare così una “traduzione” culturale di realtà marginali nelle forme e nei linguaggi più moderni e comunicativi disponibili all’arte popolare di quel periodo: il melodramma verista, e poi la musica popolare delle arie e delle romanze stampate e diffuse ovunque per la prima volta su disco, e particolarmente diffuse grazie questo primo veicolo tra le comunità di emigrati italiani all’estero e soprattutto nelle due Americhe.
Un tesoro per gli americani
Ne è prova il National Recording Registry, un museo di files sonori creato dalla Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti. In questo archivio multimediale è stata immortalata la storia culturale degli USA. Vi hanno trovato consacrazione le voci ruvide e stentoree di presidenti e generali, le icone sonore di Martin Luther King che pronuncia il suo celebre «I have a dream», la voce da crooner di Frank Sinatra e quella libertaria di un giovane Bob Dylan che canta Blowin’ in the wind.

In mezzo a questo campionario di voci memorabili è possibile ascoltare i maestri del jazz e della musica classica, i poeti e gli artisti del rock, pezzi di storia popolare come la prima trasmissione radiofonica americana, il primo disco di jazz, il primo album in stereo e altro ancora. In tutto le registrazioni da consegnare ai posteri per ora sono solo cinquanta, selezionate da un gruppo di esperti guidati da James H. Billington, responsabile della Libreria del Congresso, che le ha giudicate «culturalmente, storicamente o esteticamente rilevanti per importanza» per la ricostruzione della storia culturale degli USA.
Enrico Caruso e una registrazione da record
Al n. 7 del repertorio, c’è per ora l’unico brano in italiano: un’aria d’opera che divenne subito famosa e amata, e non solo tra gli immigrati italiani, «Vesti la giubba from Pagliacci of Ruggiero Leoncavallo. By Enrico Caruso. (1907)». Il celebre brano è preceduto da questa motivazione: «Tenor Enrico Caruso was probably the most popular recording artist of his time. His recording of this signature aria by Leoncavallo was a best-selling recording». (Il tenore Enrico Caruso fu probabilmente l’artista più popolare del suo tempo a incidere. La sua registrazione dell’aria simbolo di Leoncavallo fu tra quelle più vendute).

Si trattava dunque già allora di un successo ultrapopolare del belcanto; Leoncavallo dimostrando grande fiuto per lo showbiz fu tra i primi compositori a registrare le sue musiche su disco. Successo che dura ancora oggi intatto. Merito di Caruso, merito di Leoncavallo e soprattutto di una storia di paese che raccontava al nuovo mondo l’anima degli italiani del Sud.
Leoncavallo e i Pagliacci globalizzati
Con Pagliacci Leoncavallo riformulava il melodramma classico, ibridando il belcanto con i temi e gli ambienti sociali emersi dal basso. Del resto lo stesso Leoncavallo, per guadagnarsi da vivere aveva suonato nei bistrot e nei caffè-concerto malfamati di Parigi.
Ed è forse per questo che all’epoca autore e opera (nonostante il grande successo popolare) furono ambedue così apertamente osteggiati dalla critica musicale purista e dalle posizioni più ufficiali e conservatrici dell’intellettualità nazionale. Piaceva molto invece agli emigranti italiani, e agli americani, quella musica «tumultuosa e vistosa». Era esagerata, ibrida e sporca, come come il jazz, come un musical, come un’opera rock. Pagliacci, globalizzati.